Fresca di Laurea, al primo giorno di tirocinio presso una struttura per i detti “malati psichiatrici”, sento tuonare da parte dello specialista di turno: “Per te, la psicoterapia non esiste!” Nell’ingenuo entusiasmo dell’inesperienza, rimasi sconvolta da tale asserzione. Poi, studiando e facendo esperienza, ho capito il senso di quella frase e che la maggioranza dei miei colleghi è molto più in linea con l’esimio specialista, che con noi strategici, considerati non a caso per anni gli eretici della psicoterapia. Enrico, così mi piace chiamarlo, era un uomo di 45 anni con un disturbo di personalità ossessivo compulsivo, associato alla paranoia persecutoria di venire avvelenato da parte dei propri cari, in una sorta di complotto.
Enrico soffriva di questo disturbo fin dall’adolescenza e, in questo stato, non solo si era isolato dal mondo, ma, per anni, si era sottoposto a complicati rituali di lavaggio e di disinfezione, al punto che la pelle, a furia di strofinarla, si era assottigliata tanto da lacerarsi anche solo a guardarla. Morto il padre, la madre, non gestendo più la situazione, si rivolge al servizio pubblico che trova per Enrico la struttura del mio tirocinio, dove l’unica cura, oltre gli antipsicotici, è la chiusura a chiave dei bagni.
Più volte, mi sono chiesta perché nessuno facesse qualcosa per quell’uomo prigioniero della propria infausta diagnosi. Poi, passando il tempo e osservando dall’interno la situazione, ho capito che qualcosa si poteva fare per lui, ma, semplicemente, nessuno sapeva cosa. Quel che intendo dire è che, sebbene la diagnosi fosse certa e dal punto di vista descrittivo non ci fossero dubbi in merito, ciò che impediva il trattamento era il fatto che la diagnosi descrittiva ci dice di che disturbo si tratta, ma non come funziona e, soprattutto, come fare per risolverlo.
È trascorso qualche tempo da allora, ho visto tanti uomini come Enrico passare per il Centro di Terapia Strategica di Arezzo, dove, avendo la fortuna di lavorare a fianco di Giorgio Nardone da 15 anni, mi è stato possibile notare le evoluzioni della tecnica, dei protocolli, del modo di fare terapia dal punto di vista non solo tecnico, ma anche della comunicazione e della relazione. Ho avuto modo di prendere parte a diversi importanti progetti, che hanno segnato la storia della Terapia Breve Strategica, fino all’ultimo, che ha portato alla stesura del testo “Psicoterapia breve a lungo termine”, sul quale mi sento di spendere qualche parola, per condividere con il lettore il senso del nostro lavoro, anche in un campo così spinoso come quello dei disturbi di personalità.
Grazie a tre decenni di ricerca-intervento, attuata applicando stratagemmi di soluzione che seguissero i principi della scienza (efficacia, efficienza, replicabilità, generalizzabilità e predittività), siamo giunti alla formulazione di una processualità terapeutica che, rispettando i suddetti criteri, potesse rispondere anche alle esigenze delle persone definite cronicizzate, piuttosto che borderline, psicotiche o, ancora, inguaribili.
Andando con ordine, abbiamo iniziato con i protocolli di intervento per i disturbi con sintomatologie chiare ed evidenti, come attacchi di panico, fobie, ossessioni e compulsioni, disordini alimentari e disfunzioni sessuali. Nella maggioranza di tali aree cliniche, il disturbo coincide con la sintomatologia, una volta estinta la quale il soggetto recupera il proprio equilibrio psicologico (Nardone, Watzlawick, 2005). In seguito, ci siamo sempre di più imbattuti con disturbi persistenti da anni, quindi cronicizzati, per i quali è emersa la necessità di aggiungere alla prima parte «strategica» una successiva fase di riorganizzazione supervisionata della vita dei pazienti, in modo che questi, liberati dalle sintomatologie invalidanti, oltre a stabilizzare i risultati potessero costruire un nuovo equilibrio, che spontaneamente non si sarebbe realizzato.
Abbiamo quindi abbandonato le tecniche terapeutiche della tradizione sistemica (Bateson, Weakland, Haley, 1956) cui ricorrevamo nei primi tempi con le psicopatologie maggiori, perfezionando ulteriormente le tecniche e i modelli terapeutici già formalizzati, perché calzassero alle varianti fobiche di queste patologie, così come per le diverse forme di disturbo ossessivo-compulsivo, dei disturbi alimentari e delle disfunzioni sessuali. Tale evoluzione tecnologica ha reso il modello ancora più rigoroso, sistematico, e insieme flessibile e adattabile alle specifiche esigenze terapeutiche delle numerose varianti sintomatiche dei disturbi.
Come psicosi o presunte tali abbiamo classificato la casistica che evidenziava disturbi con eclatanti deliri, manie di persecuzione, allucinazioni e marcati stati dissociativi, congiunti all’incapacità di costruire e di mantenere relazioni significative, o alla presenza di complementarietà patologiche di dipendenza, oppure ancora casi in cui le differenti sintomatologie acute si alternavano l’una all’altra. Si tratta di patologie con poca regolarità e molte eccezioni alla regola, con le quali, piuttosto che formulare un protocollo terapeutico replicabile e predittivo, è molto più strategica la definizione di singole tecniche e di manovre terapeutiche capaci di scardinare le rigidità patologiche e di azzerare, o di ridurre significativamente, il grado di invalidazione causato dalle espressioni sintomatologiche del disturbo.
Come espresso altrove (Nardone, Watzlawick, 1990; Nardone, Balbi, 2008), un cambiamento terapeutico effettivamente efficace deve prevedere come primo obiettivo terapeutico l’estinzione del disturbo e delle sue espressioni sintomatiche, utilizzando tecniche che aggirino la resistenza al cambiamento, per ottenere risultati rapidamente. A ciò dovrebbe seguire la costruzione di un equilibrio psichico e comportamentale che permetta di evitare ricadute nel disturbo e di esprimere le piene potenzialità dell’individuo, attraverso un processo di apprendimento per mezzo di esperienze e acquisizioni.
In altri termini, la prima parte della terapia è prettamente strategica, la seconda esperienziale evolutiva, al fine di consolidare i cambiamenti terapeutici e sviluppare fiducia nelle risorse personali, grazie ad una ristrutturazione delle modalità percettivo-emotive. La terza fase è cognitiva e mira a suscitare l’autostima e il senso di autoefficacia; il terapeuta diventa un supervisore o consulente che supporta il soggetto nei momenti critici, ma senza mai sostituirsi a lui.
Egli non “prescrive”, bensì assume una posizione che spinge il soggetto, attraverso domande orientanti e parafrasi che ridefiniscono le diverse prospettive di analisi del problema, a scoprire le proprie risorse personali per l’acquisizione di sicurezza e di autonomia. Il percorso terapeutico si conclude quando il paziente dichiara di sentirsi sicuro e autonomo, non più a rischio o in bilico, capace pertanto di fronteggiare i problemi posti dalla vita.
Il perdurare del disturbo nel tempo non depone per il prolungamento della fase terapeutica del nostro lavoro, bensì implica la necessità di un tipo di terapia a lungo termine, solo in quanto continuazione di una terapia precedente che ha dato esiti terapeutici nel breve termine. (Watzlawick, 1974; Nardone, Watzlawick, 1990-2005; Nardone, Portelli, 2016; Nardone, Balbi, 2015). Sul piano della valutazione metodologica, l’efficienza avvalora l’efficacia, così come la tecnica deve essere replicabile per essere rigorosa, ovvero dare più o meno gli stessi risultati applicati alle stesse tipologie di problemi.
Per dimostrarsi ancora più avanzata e tecnologica, essa deve prevedere gli esiti di ogni singola manovra terapeutica all’interno dell’intera strategia terapeutica nella sua sequenzialità, ossia essere predittiva. Con le parole di Paul Watzlawick, «il fatto che una patologia sia sofferta da molti anni non significa che la sua terapia debba essere altrettanto prolungata e sofferta».
Giungendo agli esiti terapeutici, abbiamo esaminato tre aree cliniche richiedenti una psicoterapia breve a lungo termine negli ultimi cinque anni, circa il 35% dei soggetti trattati presso il nostro Centro e quelli affiliati: casi cronicizzati, disturbi borderline e disturbi dello spettro psicotico. Dei cronicizzati, l’88% ha risolto del tutto il problema, mentre sul piano dell’efficienza il numero delle sedute è risultato compreso tra le 12 alle 20 nell’arco di un anno. Nei disturbi borderline, il 71% ha avuto esito positivo, con prolungamento del trattamento per tre anni circa e un numero variabile dalle 15 alle 35 sedute. Relativamente allo spettro psicotico, l’efficacia si attesta sul 59% dei casi, con un numero di incontri compreso tra i 10 e i 39.
In più dell’80% dei casi dell’intera casistica, la sintomatologia invalidante è stata azzerata o significativamente ridotta entro i primi 5 incontri. Certamente ancora abbiamo molto da lavorare per elevare le possibilità di cura, ma siamo fiduciosi nella possibilità di evolvere ancora in questa direzione (Nardone, Balbi, Bartoletti, Vallarino, 2017).
Anche il palazzo più imponente, nella nostra esperienza, se minato nei punti giusti, può crollare rapidamente, mentre la sua costruzione richiede un lavoro lungo e faticoso, come è accaduto per Giona, Cati, Serena, Erika, Anna, Giacomo, i protagonisti del nostro libro, e per tutti coloro che quotidianamente incontriamo nella nostra pratica clinica, i quali, come funamboli, imparano a camminare sulla corda tesa, diventando ognuno per se stesso la propria barra stabilizzatrice, mentre noi continuiamo a guardarli, mano a mano sempre più da lontano, e sempre pronti a intervenire qualora dovessero nuovamente avere bisogno di noi.
Dott.ssa Elisa Balbi (Psicoterapeuta, docente e supervisore Ufficiale del Centro di Terapia Strategica)